A Pechino i bambini dei migranti rurali non hanno diritto a ricevere l’istruzione elementare. Si tratta dei figli di coloro che spendono e investono il loro tempo e le loro energie lavorando nella e per la capitale senza esserne però residenti. Il frutto di quella che è una politica che si trova a fare i conti con la crescente esigenza di decongestionare la città, si scontra con il costante bisogno di manodopera. «Il governo vuole entrambe le cose: forza lavoro a basso costo che continui a costruire Pechino e che però alla sera se ne vada altrove», sarebbero le parole di un membro del collettivo del villaggio di Picun riportate da Internazionale. Un pretendere senza ritorno, insomma.
Per fare domanda e garantire la frequentazione delle scuole pubbliche alla loro prole, requisito minimo è il possesso di un contratto di lavoro da almeno cinque anni, che si aggiunge al soprascritto permesso di residenza: combo di condizioni, questa, difficile da ottenere, senza contare che alle promesse di sistemazioni alternative da parte delle autorità si contrappongono gli alti costi di esse.
Gli adulti, però, volenterosi di adempiere ai loro obblighi genitoriali, non si sottomettono, e nel tempo hanno sviluppato un servizio analogo a quello a loro non offerto dallo Stato. Non mancano, infatti, dirigenti scolastici pubblici che accolgono gli studenti nei loro istituti, mossi da un senso d’uguaglianza e parità, così come frequenti sono le minban xiaoxue, che sopperiscono a tale disparità. Non si tratta di scuole private nell’accezione italiana del termine, bensì di scuole semi-autogestite, fatte dalla gente come ci suggerisce la traduzione letterale del termine minban.
«Siamo contadini. Il nostro unico scopo è di mandare i figli all’università e poi aiutarli a trovare lavoro. Se hai una laurea non muori di fame. Così facciamo il nostro dovere di genitori», dice a un certo punto uno dei mingong. Spesso, invero, è qualche migrante istruito a realizzarle per preparare gli alunni agli esami. Da quando è stato indetto un piano urbanistico per diminuire di almeno 300.000 unità gli abitanti della sovraffollata metropoli, le scuole, manco a dirlo, vengono chiuse ad un ritmo incalzante. Secondo alcuni dati sarebbero passate da 133 nel 2016 a 112. Non c’è, spesso, neppure a chi poter appellarsi: molte volte è, verosimilmente, la stessa polizia in borghese ad impedirne l’ingresso.
Il tutto per ottenere che tali famiglie, pur svolgendo la loro attività a Pechino, svolgano il resto delle loro attività in un altro luogo. Trasferendosi, ad esempio, a 270 chilometri dalla capitale, precisamente nella prefettura di Hengshui, nessun ostacolo dal carattere didattico si porrebbe tra i sogni dei piccoli scolari e la possibilità di realizzarli. Creare, dunque, un popolo di pendolari, che in una prospettiva futura, dovrebbe grazie alla realizzazione di ferrovie all’avanguardia, impiegare un’ora per viaggiare tra il dovere e la vita.
I pareri e le opinioni dei diretti interessati a riguardo sono varie, riflesso della grande contraddizione che hanno ad oggetto. Se c’è da un lato chi, pur non amando Pechino conserva il sogno immobiliare che, probabilmente per un senso di rivalsa o una sorta di auto ricompensa, lo vede proprietario di un appartamento in loco, dall’altro c’è chi è rassegnato alla situazione implicitamente imposta «Ho lavorato duro per la città. Anche se non ho creato tanta ricchezza per la nazione, per lo meno non sono un peso. Che i miei figli sappiano leggere è il minimo e, se non puoi iscriverli a scuola, bisogna andarsene. Noi siamo l’ultimo scalino della società».
Concetta Interdonato
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